La rotta rappresenta una data cardine per Ammonite perché il borgo sarà interessato per più di mezzo secolo
dai grandi lavori di regimazione fluviale e di bonifica di tutto il comparto meridionale della Cassa di Colmata del Lamone.
Dopo oltre un secolo dalla diversione dell’Alberoni, la rotta delle Ammonite favorisce il cambiamento radicale di tutto il territorio a Nord di Ravenna. Al culmine di un autunno dalle continue piogge, il Lamone rompe gli argini. Una valanga di acqua si dirige verso Ravenna ed allaga migliaia di ettari di terreni, molti dei quali coltivati. Così si legge in uno scritto d’archivio attribuito a Filippo Lanciani, ingegnere capo del Genio Civile di Ravenna: «Ma questo fiume, che doveva più tardi far parlare molto di sé, irrequieto per i soprusi ricevuti, non contento dei percorsi capricciosi che gli uomini volevano continuamente a ad ogni costo fissargli, obbligato a ricevere nel suo alveo ristretto le acque torrenziali precipitosamente cadenti dalle pendici dello spogliato Appennino, costretto a fare un giro tortuoso per giungere al suo destino, si ribellò a tante limitazione di libertà ed il 7 Dicembre 1839,durante una straordinaria piena, ruppe, per un fontanazzo, l’argine destro nella località denominata Ammonite in vicinanza della villa Santerno. E siccome il Lamone, in quel tratto, aveva il fondo più alto del piano delle campagne vicine riversò su di esse tutte le acque, aprendosi, attraverso l’argine stesso, una bocca di 250 metri. I danni prodotti dalla violenza delle acque furono enormi ed il tronco del fiume inferiore alle Ammonite fu talmente danneggiato che non sarebbe stato più possibile riattivarlo senza l’esecuzione di costose opere»
La commissione di tecnici, nominati dal governo pontificio, nei sei anni successivi ipotizza di costituire, a partire dalla “rotta”, una cassa di colmata, articolata in quattro recinti principali, per permettere alle torbide del Lamone di bonificare circa ottomila ettari di terre basse e paludose. Un’opera grandiosa, che, secondo le previsioni, non si sarebbe compiuta in meno di cinquant’anni. Venne subito abbandonato il progetto di chiudere la grande falla e il «nuovo» corso delle acque, racchiuso fra due argini alti due metri sul piano di campagna, giunse alle valli di S.Egidio che sono le prime ad essere colmate. In questa fase iniziale, un argine meridionale difese le colture lungo la via Faentina, Camerlona e la zona a Nord Ovest di Ravenna. Il dosso lasciato da questi argini è tuttora visibile ad Ammonite in via Bacinetta e Canaletta, a Piangipane presso il Cimitero degli Alleati (Allied War Cimitery) e a Camerlona all’incrocio con la “Reale” (SS 16), dove il dosso, seguendo la via Ferragù attraversa la via Canalazzo e si perde poi fra le colture verso Oriente. L’intera bonificazione del Lamone venne racchiusa per 40 chilometri da un canale circondariale, con il duplice scopo di difesa ed adduzione delle acque.
La cassa di colmata del Lamone fu determinante anche nel tracciare nuovi scenari socio-economici. Ai proprietari delle terre espropriate, che chiedevano risarcimenti e si lamentavano dei mancati guadagni, fu concessa, come indennizzo, la facoltà di impiantare colture risicole, vista l’abbondanza di acqua corrente. Questo favorì una grande diffusione delle risaie, una coltura molto redditizia, anche se “all’azzardo” poiché il Genio Civile si riservava la facoltà di allagare o svuotare i cassi, per mantenere gli equilibri idraulici utili alla bonificazione. I concessionari spesso elevavano gli arginelli, impedendo così gli effetti della colmata e prolungando i tempi della bonifica, rispetto al previsto mezzo secolo. Nonostante questi sforzi, le risaie all’azzardo non riuscirono ad impedire al fiume di riempire anche i canali d’alimentazione dei cassi e coltivare il riso diventò sempre più difficile.
Il paesaggio è cambiato e sulle nuove terre fertili, discese dalle colline della valle del Lamone, trovano spazio nuove colture: cereali, erba medica e, nei terreni meno fertili, la barbabietola da industria: per lavorarla vengono costruiti, all’inizio del secolo, gli zuccherifici di Mezzano e di Classe; mitici stabilimenti circondati da densi vapori, nelle mattutine attese di lunghe file di carri trainati da buoi. I terreni via via bonificati, a rotazione, vennero sottoposti a colture asciutte. Sulle terre della bonifica, si affermò il cosiddetto paesaggio della larga a coltivazione omogenea, con al centro la grande boaria in contrapposizione alle vecchie terre appoderate a colture promiscue, tipiche della piantata padana, con filari di viti spesso maritate all’olmo e all’oppio (acero campestre).
La bonifica non contribuì soltanto a cambiare il paesaggio, mutò anche l’aspetto sociale di intere zone rurali. Le centinaia di uomini, che per anni lavorarono ad innalzare argini, a costruire opere di canalizzazione, distribuzione e scolo delle acque, entrarono da protagonisti, in quella nuova fase della vita agricola. La mezzadria cedeva il posto al lavoro a giornata, disgregando l’economia contadina e creando nuove forze, che alcuni proprietari terrieri, come la contessa Pasolini definì la «classe minacciosa dei braccianti».
Altre opere bonificatorie furono attuate, sempre nel corso dell’Ottocento, grazie ad interventi statali. Fu progettato l’escavo del canale in destra Reno, una grande opera di bonifica drenante della bassa pianura lughese, a tutti noto come “scolo delle acque chiare”. La realizzazione dell’intero tracciato, ultimato negli anni Trenta, portò allo scolo, per caduta naturale, delle terre circostanti, quindi alla ruralizzazione dei terreni, posti fra i setti fluviali di Santerno e Senio, ora destinati prevalentemente alla frutticoltura.
Testo stralciato dal saggio di Pietro Barberini e Osiride Guerrini Scritture d’acqua e terra.
(Le carte del Gufo, Longo Editore, 2000, Ravenna)